sabato 29 ottobre 2011

Il Pappone sul Social Network

La foto del Profilo di Facebook dell'Agenzia 3C
MALAYSIA - L’esplosione di Facebook in Asia (168 milioni di persone possiedono un account) non poteva lasciare indifferente anche la fiorentissima industria del sesso a pagamento del Sudest del continente, area in cui risiedono il 57% degli utenti FB asiatici. Nessuna sorpresa, dunque, per la comparsa sul social network piú famoso del mondo di una pagina che offre giovani prostitute nella capitale malese Kuala Lumpur (più di una perplessità, invece, sui motivi dell’inazione dei censori di Facebook, di solito alquanto solerti). Titolare del nuovo account è una delle tante organizzazioni specializzate già attive su Internet con websites o blog semi-pubblici: la 3C (che starebbe per “Call-Choose-Cash”, cioè: chiama, scegli e paga), che si autodefinisce “L’Agenzia di Escort Numero 1 della Malaysia”. A pochi giorni dall’apertura, e grazie al passaparola e a un paio di articoli comparsi sui giornali di Kuala Lumpur The Star e Sinar Harian, la pagina-pimp di Facebook ha visto subito un piccolo boom di fan registrati (4.262 al momento in cui scriviamo). I dettagli personali di questi “sostenitori” non sono elencati, ma dai nomi e dalle foto di quelli tra loro che hanno osato esporsi per commentare i (non numerosi) post finora pubblicati dall'anonimo “Agente 3C”, si può facilmente giungere alla conclusione che l’idea abbia fatto breccia in un bacino di curiosi e possibili utenti tutti maschi, giovani e in maggioranza malesi (diversi anche i fan di altri Paesi asiatici). La Bacheca della pagina FB pubblica un certo numero di foto di ragazze - chiamate apertamente “prodotti” - di origine cinese, thailandese e indonesiana e il tariffario, diviso per origine etnica della ragazza e orari (1, 3 o 6 ore): si va dai 150 Ringgit malesi (34 euro) per un’ora con una ragazza thailandese, ai 700 Ringgit (160 euro) per 6 ore trascorse con una cinese. Indicata con una colorata infografica, in varie lingue (per possibili turisti sessuali in arrivo a Kuala Lumpur), anche la procedura per la trattativa: “Trovatevi una camera d’albergo; chiamateci, indicando dove vi trovate, il tipo di ragazza preferito e il tempo desiderato; un paio di ragazze si presenteranno in poco tempo. Dopo avere fatto la vostra scelta, pagate e divertitevi”. Un numero di cellulare malese (012959****) compare già nel titolo della pagina e viene poi ripetuto nei post. Se i potenziali utilizzatori del servizio desiderano farsi un’idea più precisa del tipo di “merce” in offerta, la sezione Info della pagina FB fornisce il link al sito web dell’agenzia 3C (un Blog), che pubblica molte foto esplicative. Detto della mancata reazione dei censori di Facebook, non stupisce invece quella delle autorità della Malaysia, Paese multi-etnico ma a maggioranza musulmana, dove la prostituzione è vietata per Legge, ma viene praticata quasi alla luce del sole, soprattutto a Kuala Lumpur. “Siamo al corrente dell’esistenza della pagina di Facebook”, ha dichiarato serafico il Vice-direttore del Federal Criminal Investigation Department (incaricato della repressione di vizio, gioco d’azzardo e società segrete), Abdul Jalil Hassan. “Ma finora nessuno è mai stato arrestato per avere offerto sesso su Internet”.

domenica 23 ottobre 2011

Giochi severamente proibiti

Sex toys di ogni forma, colore e dimensione
VIETNAM - Il Diavolo, si sa, si nasconde ovunque, e la camera da letto è uno dei suoi campi di battaglia preferiti, naturalmente anche in Asia. Per arrivarci, il Maligno può però prendere le strade più diverse e inaspettate, e celarsi perfino nelle valigie, nei pacchi postali e nelle borsette delle signore. Ne sanno qualcosa i poveri funzionari delle Dogane vietnamite, che da qualche anno si trovano a dover fronteggiare gli immaginifici e aggressivi tentativi di Belzebù di varcare le sacre frontiere della Patria utilizzando le sue ben note doti trasformistiche. Il Diavolo – informano alcuni preoccupati lanci dell’agenzia ufficiale Thanh Nien – sta tentando di entrare nel Paese comunista sotto mentite spoglie: un giorno si presenta travestito da vibratore elettrico, un altro da bambola gonfiabile e il giorno dopo da protesi di gomma. Tutti cosiddetti “giocattoli sessuali”, ormai abbastanza conosciuti e tollerati in Occidente, ma considerati dalle Autorità di Hanoi alla stregua di diabolici strumenti, diretti a diffondere tra le fila compatte dei cittadini comunisti uno “stile di vita debosciato” e decisamente contro-rivoluzionario. Secondo alcuni allarmati rapporti dei funzionari doganali, sarebbero infatti in forte aumento i casi di importazione di aggeggi “di piacere”, maschile e femminile, ritrovati sempre più spesso nei bagagli di turiste e turisti stranieri o di vietnamiti rientrati dall’estero, ma anche in pacchi postali in arrivo da oltrefrontiera, frutto di acquisti online o più semplicemente inviati ai residenti da amici che vivono all’estero. La produzione e l’importazione commerciale dei cosiddetti “sex toys” sono bandite già da tempo nel Paese del Sudest Asiatico. Ma il Diavolo ne sa sempre una più di un qualsiasi scaltro censore, e non smette mai di provarci. Gli ordini del Partito e del Governo, per quanto ideologicamente motivati, in Vietnam come in ogni altro Paese necessitano pur sempre di istruzioni e regolamenti di attuazione che, nel caso dei “sex toys, le Autorità di Hanoi avevano - fino a poche settimane orsono - fatalmente dimenticato di approvare (lasciando nella confusione i funzionari preposti alla salvaguardia delle frontiere). Come comportarsi, si chiedevano imbarazzati i pubblici ufficiali, quando sugli schermi dei raggi X dell’aeroporto di Hanoi o di Ho Chi Minh Ville compariva l’inconfondibile silhouette di un “dildo”; oppure, se da un controllo nel bauletto di una coppia di giovani turisti, magari in luna di miele, scappavano fuori manette coperte di pelouche rosa o misteriosi attrezzi borchiati di pelle nera, di indubitabile natura sado-maso? In attesa di delucidazioni dall’alto, i censori in divisa finora avevano cercato appigli nei regolamenti disponibili, che però menzionano esplicitamente solo l’ordine di sequestro per i “giocattoli pericolosi per la salute dei bambini” (difficile far rientrare i “sex toys” in questa categoria) o i “medicamenti nocivi” (non applicabile al caso in questione). Complicato anche invocare la proibizione del 2009 contro le “attività culturali” dirette a “minare lo Spirito nazionale”, perché troppo vaga e finora utilizzata solo per reprimere il dissenso politico e non anche quello di tipo sessuale. Per cercare di risolvere la questione, nei giorni scorsi la Direzione delle Dogane ha finalmente pubblicato il prontuario dell’oggettistica demoniaca (le agenzie, purtroppo, non riportano copia della lista ufficiale, che immaginiamo essere stata redatta dai massimi esperti del Governo) e ha chiarito che l’importazione dei “sex toys” è vietata in Vietnam “anche per uso personale”. D’ora in poi, i giochi erotici ricevuti per posta dovranno essere subito “ri-esportati” a cura dei destinatari dei pacchi, pena la distruzione da parte delle Autorità. E i doganieri avranno l'autorità di sequestrare ogni giocattolo sessuale scoperto nei bagagli dei viaggiatori. Ai quali, peraltro, lo Stato si impegna a restituire il materiale peccaminoso al momento dell’uscita dal Paese. Ai poveri funzionari delle Dogane il compito di rilasciare ricevuta, catalogare gli oggetti e conservarli, in condizioni di sicurezza, in luoghi appositamente attrezzati.

giovedì 8 settembre 2011

La Rivoluzione del condom cinese

Abito da sposa - Condom Fashion Show 
CINA - C’è un settore manifatturiero cinese che tira alla grande, fattura ogni anno milioni di dollari e contribuisce a rendere felici - letteralmente - milioni di clienti in patria ma soprattutto in Occidente, anche in questi ultimi turbolenti mesi di crisi. Parliamo dell’industria dei preservativi, tra le più vivaci del nuovo boom delle esportazioni del gigante comunista. Nonostante i problemi finanziari di Europa e America, il settore continua a espandersi, forse perché in tempi di crisi ci si rifugia nell’amore, o perché le coppie pensano due volte prima di procreare o, ancora, perché quando i soldi sono pochi ci si ricorda che il sesso è uno dei pochi divertimenti e momenti di socializzazione relativamente a buon mercato rimasti agli esseri umani. Considerati fino a non molto tempo fa di cattiva qualità e decisamente inclini a rompersi nei momenti meno opportuni, i condom cinesi hanno sfondato resistenze e barriere dopo l’ingresso del Paese nel WTO, guadagnandosi una nuova fama con strategie di marketing che li hanno fatti conoscere e apprezzare in tutti i continenti. Non vogliamo parlare qui del piccolo scandalo mediatico “mondiale” di qualche giorno fa, provocato dalle immagini di un reporter della compassata TV di Stato CCTV ripreso con in mano un microfono visibilmente protetto da un preservativo (si trattava di un servizio sull’ultima tempesta tropicale e il povero professionista aveva paura di bagnare l’apparato tecnico...). Ci riferiamo piuttosto alla fantasia e alla totale mancanza di inibizioni mostrata dagli strateghi dei brand cinesi nell’affrontare  non solo i concorrenti, ma anche e soprattutto nemici potenti come l’Ignoranza, il Pregiudizio e, in molti Paesi, la Religione. La società che guida questa agguerrita pattuglia di produttori cinesi e che meglio sta combattendo la guerra globale per l’affermazione del preservativo è la Guilin Latex Factory, orgogliosa proprietaria dei popolarissimi marchi “Gobon” e “Kungfu”, diffusi in 35 Paesi del mondo. Creata 40 anni fa dal Ministero Statale per l’Ingegneria Chimica, ma oggi divenuta una società autonoma di cosiddetto secondo livello del settore medico, la compagnia è diretta da un attivissimo CEO, il signor Tao Ran, e ha il suo quartier generale appunto a Guilin, forse la più romantica e pittoresca città cinese, sulle rive del fiume “Fiore di pesco”. I moderni stabilimenti della “Guilin”, che occupano un’area di 130 mila metri quadrati, danno lavoro a oltre mille dipendenti e producono ogni anno 700 milioni di condom, utlizzando 3 mila tonnellate di latex, con un turnover annuo di 20 milioni di dollari. La lista delle patenti nazionali e internazionali della Guilin (certificati ISO, CE europeo, GMP americano) e dei suoi committenti (Commissione Cinese di Stato per la Pianificazione Familiare, Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione, ONG mediche) testimonia da alcuni anni la qualità del “prodotto”. Ma la notorietà su scala mondiale e il vero balzo in avanti nelle vendite, sono venuti più recentemente da alcuni grandi eventi sportivi, tra cui le Olimpiadi di Pechino del 2008 (80 mila condom distribuiti gratuitamente in poche ore al villaggio delgi atleti) e la Coppa del Mondo di calcio in Sud Africa nel 2010 (prodotto ufficiale, centinaia di migliaia di pezzi distribuiti ai tifosi dal Ministero della Sanità). Brillanti le tecniche adottate dalla Guilin per conquistarsi nuove commesse e spazi di mercato. Dall’adesione incondizionata ai principi fondativi delle Nazioni Unite per la lotta all’AIDS, con tanto di lettera ufficiale di Tao Ran, pubblicata online, nella quale la società si impegna anche a battersi “per i diritti umani e per i diritti dei lavoratori”; all'invenzione del “Condom Fashion Show” in occasione della 18esima edizione del “World Population Day” a Pechino. Dalle sponsorizzazioni ai blitz degli attivisti anti-AIDS (con enormi tende a forma di preservativo calate su palazzi e grattacieli); alla diversificazione dei prodotti (colori, forme, taglie e gusti), con l’invito ai clienti a “disegnare la vostra linea personale di condom.” Fino a una disinvolta strategia di PR su internet, con un moderno sito web (anche in inglese) con informazioni tecniche sull’uso dei preservativi, spiegazioni sui rapporti sessuali, anche omosessuali, e una breve Storia del Condom. Il tutto senza dimenticare le proprie origini e il dovuto omaggio all’unico, vero “Amministratore Delegato” di qualsiasi impresa cinese, come chiarisce la “Mission” della società, distribuita ai committenti, nella quale si ricorda a tutti, lavoratori e clienti, che i successi della Guilin sono dovuti alla "leadership del Partito e dei membri dell’Esecutivo, armati di un forte spirito esplorativo e delle idee politiche più avanzate.”

domenica 4 settembre 2011

Tette, rugby & motorette

Il logo della parata
NUOVA ZELANDA - I limiti della “decenza” sono al centro di una furiosa battaglia politico-legale in Nuova Zelanda, isola anglosassone e solitamente tranquilla del Pacifico, alla vigilia dell’attesissima Coppa del Mondo di Rugby. Archiviata a furor di popolo l’infelice proposta di uno sponsor degli All Blacks di invitare i supporter della squadra nazionale ad astenersi dal sesso come “fioretto” per conquistare l’agognato trofeo, la parola “S” è tornata prepotentemente a far discutere e a dividere la pubblica opinione. Sotto accusa, questa volta una provocatoria parata annunciata per il giorno di una partita clou del torneo, quella tra la squadra neozelandese e la fortissima Francia. A organizzare il corteo, la CVC Group Ltd. società del cosiddetto “Re del Porno” Steve Crow che gestisce con il marchio NZX una serie di attività nel fiorente mercato della pornografia legale (un sito web, un settimanale, un mensile, un’agenzia di escort e “presto anche un’agenzia per cuori solitari”) e uno dei principali sponsor di Erotica Lifestyle Expo, la maggiore fiera annuale dell’erotismo della Nuova Zelanda. Il nome della parata (un evento che si tiene dal 2003 in tutte le principali città) è “Boobs on Bikes” - letteralmente, “Tette sulle motociclette”: decine di procaci ragazze in topless che attraversano il centro cittadino trasportate da rombanti moto di grossa cilindrata, con distribuzione di materiale “informativo” e commerciale. L’evento, nato 8 anni fa per protesta contro l’arresto di due ragazze in topless, ha assunto sempre più chiari obiettivi promozionali, ma non è mai stato veramente ostacolato dalla Polizia che finora ha permesso lo svolgimento di ben 17 parate, in varie città. Un’interpretazione liberale delle leggi sulla decenza rende, secondo le forze dell’ordine, l’esibizione di un paio di seni non particolarmente offensiva, “se non accompagnata da atteggiamenti provocatori e lascivi”. Negli ultimi tempi, però, le polemiche contro “Boobs on Bikes” sono cresciute, dando vita a un movimento di contestazione che vede unite, cosa abbastanza rara, organizzazioni femministe - contrarie alla commercializzazione del corpo della donna - e associazioni cristiane a difesa della morale e, appunto, della decenza. Un’opposizione decisa che, dopo petizioni e proteste pacifiche, quest’anno minacciava di “passare all’azione” contro gli organizzatori, i centauri e le malcapitate pornostar, in occasione della parata nella città settentrionale di Tauranga. Convocati in fretta e furia per prevenire il degenerare dell’evento, dopo qualche discussione i consiglieri comunali del grosso centro del Nord hanno ufficialmente negato il permesso, citando la mancanza di un “piano stradale” e “questioni di sicurezza pubblica”. L’edizione del 2011 a Tauranga è così saltata (quella di Auckland si era invece svolta regolarmente), ma gli organizzatori di “Boobs on Bikes”, forti anche dell’inevitabile pubblicità data dai media al divieto, hanno subito rilanciato la loro provocazione, convocando un’edizione speciale della parata nel centro di Auckland, chiamata “Rugby World Cup Boobs On Bikes”, fissata per il 24 settembre, data appunto della partita All Blacks-Francia che sicuramente renderà la capitale affollatissima di tifosi nazionali ed esteri. Sul sito della parata un appello: “Cerchiamo 20 motociclisti e 20 ‘lovely ladies’ volontarie che si facciano dipingere sul corpo i colori delle 20 squadre della Coppa del Mondo”. A seguire, un elenco di raccomandazioni alle ragazze: “Per favore, non fate nulla che possa essere definito come esplicitamente ‘titillante’ sessualmente. Non agitate i seni o altro. Ricordate che la Polizia sarà presente per mantenere l’ordine pubblico e quindi non fate niente che possa provocare una reazione”. Furiose le proteste di “Family First NZ”, associazione per la difesa della morale e della famiglia: “La maggior parte dei neozelandesi sa che è indecente e inappropriato andare in giro in topless. La Polizia non vuole impedirlo e facendo questo ignora non solo la legge, ma anche la volontà della comunità", ha dichiarato alla stampa il direttore nazionale Bob McCoskrie. "Le autorità dimostrano così apertamente di non dare priorità alla protezione dei bambini e delle famiglie che saranno presenti nel centro di Auckland per festeggiare la Coppa del Mondo.”

Voglio sposare un milionario!

ASIA - La crisi finanziaria mondiale ha toccato anche i milionari (in dollari) dell’Asia. Ma i super-ricchi di queste parti sembra abbiano “sofferto” decisamente meno dei loro colleghi occidentali. La corsa all’oro del continente, in tumultuoso sviluppo, non si è infatti fermata e le economie locali continuano imperterrite nei loro trend sempre positivi, almeno per i super-ricchi. Lo testimonia un recente studio del Julius Baer Group secondo il quale la zona Asia-Pacifico ha già superato per numero di milionari l’Europa e sta avvicinandosi velocemente al Nord America. In testa, come sorprendersi, la Cina comunista, che nel 2015 raddoppierà il numero dei suoi ricconi, passando da 1,4 a 2,8 milioni “paperoni”. In forte crescita anche i ricchissimi di India, Corea del Sud e Indonesia, tra le nazioni più importanti. Il rovescio della medaglia, per questi milionari (manager di alto livello, capitani d’industria e altri, arricchitisi in modi meno leciti), è il poco tempo che riescono a riservare all’Amore e alla famiglia. In un continente dove la ricchezza è tradizionalmente considerata una virtù, fanno dunque sempre notizia le pene d’amore dei ricchi, i retroscena dei loro matrimoni e le disavventure di alcuni di loro (moltissime ormai anche le donne). Ne sanno qualcosa la 49enne anonima milionaria coreana di Gyeonggi ricorsa ai servigi dell’agenzia per cuori solitari Sunwoo, e finita per settimane sui giornali per un’ondata di offerte ricevute da maschi di tutto il Paese. E il milionario 80enne australiano rivoltosi all’agenzia di Seoul UVIS Club per trovare una moglie asiatica, offrendo 1 miliardo di won (660 mila euro) in contanti alla candidata prescelta (2 mila risposte nel giro di pochi giorni). O, ancora, l’attricetta taiwanese Barbie Hsu, chiacchieratissima per avere fatto di tutto per sposare il milionario cinese Wang Xiao Fei. O, infine, la più nota Wendi Deng (vero nome Deng Wenge, cioè "Rivoluzione Culturale Deng”), moglie cinese del tycoon Rupert Murdoch, la cui scalata alla ricchezza (per meriti intellettuali - ha un MBA conquistato negli USA - ma anche per una certa disinvoltura nello scegliersi sempre mariti più vecchi e più ricchi) le ha procurato parecchia cattiva stampa ma anche molta ammirazione tra le giovani cinesi che ormai la considerano apertamente un modello da imitare. E proprio conquistare la ricchezza via matrimonio con un uomo o una donna più ricchi, sembra il nuovo trend che affascina molte giovani donne (e non pochi ragazzi) asiatici, tutti presi dalle vite dei VIP e plasmati da trasmissioni di successo come la fiction coreana ad episodi “Sposare un milionario”, ispirata agli omonimi film e telefilm americani. Giovani di bella presenza e poco idealismo, come quelli intervistati in una inchiesta della singaporese RazorTV, che non hanno fatto mistero di preferire un bel matrimonio alla fatica di dover scalare la gerarchia della propria azienda e conquistarsi col lavoro uno stipendio da super-dirigente. Ambizioni di ricchezza che hanno indotto, recentemente, la troppo compassata agenzia cinese “Centro per l’Educazione Morale delle Donne”, a cambiare radicalmente la propria strategia di marketing lanciando un nuovo programma con l’inequivocabile slogan “Vuoi sposare un uomo ricco?”. Un corso per signorine, già relativamente facoltose (le 30 ore di lezione costano 20 mila yuan, 2.200 euro), che vogliono imparare “tecniche” per rendersi più appetibili ad un possibile ricco marito. Materie classiche, portamento, conversazione, makeup e scelta del vestiario, ma anche più moderne, come body language e psicologia applicata all’individuazione di un possibile mentitore tra i presunti milionari, per eliminare fin dal primo appuntamento ogni possibile candidato inadatto: cioè i poveri, che intendono solo portarsi a letto la ragazza, o i bravi giovanotti dalle finanze modeste e "semplicemente" innamorati.

martedì 30 agosto 2011

Il Punto Rosa di Singapore

SINGAPORE - Vedere la vita in rosa non è proprio sempre cosa facile, soprattutto se non si appartiene alla cultura e alla morale dominanti del proprio Paese e ogni giorno si subiscono piccole e grandi discriminazioni. Ne sanno qualcosa i “diversi” di ogni genere, razza e religione un po’ in tutta l’Asia, dove i condizionamenti sociali e lo stigma portato da chi non rientra nei canoni prevalenti sono ancora molto pesanti. Vedere rosa a Singapore può essere un poco più semplice, perché la piccola città-Stato dell’Asia del SudEst è uno dei territori proporzionalmente più ricchi del continente e la sua popolazione gode di tanti privilegi (ottimi livelli di istruzione, libertà di movimento, informazione) e di qualche importante diritto civile (soprattutto in tema di eguaglianza razziale e linguistica), anche se nel quadro di un sistema politico ancora di fatto monopartitico, conservatore e autoritario. La scelta di chiamare “Pink Dot” (punto rosa) una delle tante iniziative di liberazione e progresso nate spontaneamente in questi ultimi anni dalla vibrante società civile singaporese appare dunque un fondato (e facile?) inno all’ottimismo oltre che, ovviamente, una scelta cromatica poco controversa e “politica” e un chiaro riferimento al tema della battaglia dei suoi organizzatori, attivisti e simpatizzanti. Pink Dot SG è un movimento per il diritto alla felicità e alla non discriminazione nato in seno alla corposa comunità LGBT di Singapore, con lo scopo di “sostenere la libertà di amare”, sfidando i tabù esistenti e puntando alla riforma delle leggi sulla famiglia e la libertà di genere. Una battaglia fatta portando i propri messaggi - sempre moderati nella forma ma decisi nella sostanza - nelle piazze virtuali (Singapore è ai primi posti nel mondo per l’uso sociale di Internet) e in quelle reali (i singaporesi raramente manifestano le loro idee nelle strade, anche a causa di severe limitazioni in nome dell’ordine e della “quiete pubblica”). Nato solo pochi anni fa, il movimento ha ottenuto subito l’adesione di famosi esponenti del mondo artistico anche eterosessuale di Singapore e ha trovato una sponda anche nei piccoli partiti dell’opposizione politica democratica (che solo da quest’anno ha una sparuta rappresentanza di 6 deputati in Parlamento). Molto attivo sul web, con un proprio sito internet (vedi link nella colonna a fianco) e sostenuto da popolarissimi bloggers come l’insegnante di etnia cinese Otto Fong, (link a fianco), Pink Dot SG ha trovato simpatia e appoggio anche nella comunità degli affari, generosa di donazioni alla causa e di sponsorizzazioni. Come quella, clamorosa, offerta nel 2011 da Google Singapore all’ultimo grande (per gli standard dello Stato) raduno dei simpatizzanti del movimento, convocati nell’unico spazio cittadino aperto ai comizi e alle manifestazioni politiche, lo Speaker’s Corner del piccolo ma centralissimo Hong Lim Park. I 10 mila partecipanti al meeting, giunto alla sua terza edizione, tutti vestiti con indumenti rosa, hanno ascoltato gli appelli “alla liberazione” lanciati - con grande pacatezza tutta singaporese - da artisti, politici ed esponenti gay, e si sono poi stretti in un grande punto rosa, visibile da molti grattacieli del centro città. Le immagini e i discorsi della manifestazione, ripresa dalle televisioni e da migliaia di videocamere e telefonini, sono naturalmente finiti in tempo reale su YouTube, diventando una delle attrazioni più cliccate e scambiate sui computer dai giovani “rivoluzionari hi-tech” di Singapore.

Il Club delle Mogli Obbedienti

La festa d'inagurazione del primo OWC in Malaysia
ASIA DEL SUDEST - I problemi del mondo moderno? La violenza? Gli stupri, i figli abbandonati, i litigi domestici e i divorzi? Piaghe sociali di sempre, apparentemente accentuate - sostengono i conservatori - dalla globalizzazione dell’informazione senza censure e dalla disintegrazione dei tessuti sociali tradizionali. La responsabilità? In primo luogo dei maschi: violenti, eccitabili, fedifraghi, come sempre. Ma la colpa? Prevalentemente delle donne, in particolare delle mogli, di quelle mogli che non si mostrano adeguatamente acquiescenti e non sanno soddisfare sessualmente i propri mariti, lasciandoli con una carica di aggressività e insoddisfazione che inevitabilmente finiscono per sfogare in famiglia o fuori, turbando l’equilibrio del focolare e della società. La tesi, che ci limitiamo a definire curiosa, non è esattamente nuovissima: demagoghi, religiosi, psicologi e moralisti d’accatto di ogni latitudine occasionalmente la rispolverano, provocando reazioni e ormai soprattutto sberleffi da parte delle donne, in Occidente come anche - sempre di più - nella socialmente conservatrice Asia. Ha destato però sensazione (e anche preoccupazione), l’iniziativa di alcune donne asiatiche, di religione musulmana, che hanno sposato entusiasticamente questa singolare analisi dei mali della società e negli ultimi mesi hanno iniziato a mobilitarsi per provare a rimediare a questa supposta carenza di affetto e sensualità femminile. La loro soluzione? “Essere ancora più devote ai mariti e imparare a dar loro tutto il piacere che richiedono, in camera da letto”. Lo strumento per diffondere questa guerra santa al degrado dei costumi sono i “Club delle Mogli Obbedienti” (Obedient Wives Club / OWC), associazioni di donne musulmane (per il momento) con la missione di offrire a tutte le donne consigli e lezioni gratuite di "sesso familiare". I primi club - dietro i quali si può cogliere la mano di Global Ikhwan, la rete internazionale dei Fratelli Musulmani - sono già sorti, in giugno, in Indonesia, Malaysia e Singapore. Le organizzatrici sono fiduciose di poter esportare la buona novella già entro la fine dell’anno anche in altre zone del continente e perfino “a Londra, Parigi e Roma”. Pochissime le adesioni, finora, e molte le critiche, soprattutto di altre donne, ma anche di politici e istituzioni. Come la ministra malese per le Donne, Robia Kosai, che ha definito l’iniziativa “senza senso” e “non benvenuta” nello Stato del Johor, che rappresenta come parlamentare nazionale. Le “donne obbedienti” però non demordono e chiariscono il messaggio come meglio non si potrebbe: “Vogliamo che i mariti trattino le loro mogli come prostitute di prima classe. Le prostitute possono solo fornire buon sesso, ma non l’amore e l’affetto che solo una moglie può garantire al suo uomo”, ha dichiarato al quotidiano Malay Mail la presidentessa della branca malese di OWC, Fauziah Ariffin. “Se noi impariamo a offrirgli servizi migliori delle normali prostitute, lui non andrà in giro a cercarle”. Un concetto ribadito dalla co-fondatrice di OWC a Singapore, Darla Zaini: “Nell’Islam, se un marito vuole sesso e la moglie non è dell’umore, deve comunque concedersi, se no gli angeli la malediranno e questo porterà male alla famiglia”. Una tesi respinta in toto da Ratna Osman, direttrice esecutiva di “Sisters-in-Islam” (Sorelle nell’Islam), ONG malese per i diritti delle donne: “Gli uomini violenti spesso usano il comportamento delle donne come una volgare giustificazione, ma alla fine sono loro i responsabili unici delle proprie azioni”.

Bollywood a luci rosse

Il poster di "Morte davanti. Morte di dietro"
INDIA - C’è una Bollywood minore, che non ha sfondato i confini dell’India, ma che conta milioni e milioni di spettatori affezionati. È la parente povera della più grande industria del cinema asiatico e produce film dai titoli improbabili, spesso senza una vera trama e con la singolare caratteristica di ruotare intorno a poche scene ad alto contenuto erotico (almeno per gli standard morali del posto), arrivando a volte addirittura a “rubarle” da pellicole di altri Paesi, con attori diversi da quelli scritturati per il resto del film in questione. Ci riferiamo alle produzioni soft-porno (titoli come “Il mio pappagallo e la tua passera” o “Moglie incompetente e cognata competente”) e a quelle horror-porno (“Morte davanti, morte di dietro”; “L’amante strega della notte”) dei cosiddetti “morning show”, le proiezioni semi-clandestine del mattino offerte da migliaia di sale in tutta l’India, nella tollerante indifferenza dei censori e delle autorità preposte alla salvaguardia dei costumi. Famosi soprattutto i poster pubblicitari di questi film di serie B, concepiti per solleticare gli istinti dei potenziali spettatori, con fotografie o disegni osé e frasi ad effetto (“Lui ha 14 anni e io 30, e allora? Tanto non ho un vero marito”). Esposti solo al mattino nelle bacheche dei cinema o, più spesso, portati in giro da uomini sandwich in bicicletta, i coloratissimi manifesti hanno il compito di invogliare il maggior numero di spettatori a rinchiudersi nelle sale buie per un’ora o poco più di spettacolo. Uno show destinato dichiaratamente a un pubblico maschile e anche giovanissimo, di solito di ceto basso, che ancora non può permettersi l’acquisto di un videoregistratore, un lettore DVD o un computer, strumenti che - in India come ovunque - stanno rapidamente uccidendo i cinema specializzati in pellicole hardcore. L’industria che produce questi film - e questi poster - ha avuto il suo momento d’oro negli anni ‘80, e oggi vivacchia in attesa che il benessere della Nuova India, con i computer e i DVD ogni giorno meno cari, raggiunga sempre più spettatori decretando - con la pornografia su disco e su Internet - la fine del genere. Disprezzata dagli attori e dai produttori di Mumbai (Bombay, Bollywood, appunto), che almeno per numero di spettatori e fatturato competono ormai apertamente con i più blasonati colleghi di Hollywood, la cinematografia dei morning show si sta rassegnando ad una rapida fine, trincerandosi nelle roccaforti del Kerala e del Tamil Nadu. La sua dipartita lascerà però certamente qualche rimpianto nei milioni e milioni di uomini indiani che si sono “formati” su questi film. Per celebrare e rivalutare, in qualche modo, questa forma d’arte minore, una galleria di New Delhi (la W+K Exp) ha aperto il 26 agosto una mostra di manifesti pubblicitari originali, intitolata, appunto “Morning Show”. La pagina web dedicata all'evento (link nella colonna a fianco) spiega così le caratteristiche delle opere: “Disegni e immagini puntano a sollecitare le fantasie proibite dalla cultura indiana, dando loro vita nei titoli bizzarri e nelle immagini. Il linguaggio visuale, a volte coraggioso, più spesso naïf, evoca l’immaginario kitsch di tutti i poster cinematografici indiani. Ma queste locandine parlano di Sesso, un argomento particolarmente tabù in questo Paese, nonostante le sue molte rappresentazioni religiose”. La mostra di New Delhi si concluderà il 17 settembre.

La danza delle belle di notte

"Beautiful Thing", di Sonia Faleiro
INDIA - Il mondo torbido e molto poco sensuale delle danzatrici dei locali notturni (dance-bar) di Mumbai (Bombay) - da poco messi fuori legge dal governo dello Stato del Maharashtra - raccontato in un eccezionale libro-reportage, con la grazia spietata e la sensibilità che spesso solo una scrittrice donna può avere per questi argomenti. Parliamo di “Beautiful Thing”, l’ultima opera della giovane giornalista e autrice Sonia Faleiro, pubblicato in India nel 2010 e finalmente arrivato - da pochi giorni - anche nelle librerie europee (in Gran Bretagna, per il momento). Il volume, una devastante autopsia del corpaccione ipocrita della morale pubblica indiana, nasce dall’incontro di Sonia, donna colta della vibrante classe medio-alta indiana, con la teenager Leela, povera entraîneuse semi-analfabeta di uno dei tanti sordidi bar della notte di Mumbai, dove il confine tra spettacolo, voyeurismo e prostituzione era (è) tanto labile quanto le credenziali democratiche di questo immenso Paese-continente. Il racconto comincia nel 2005 nella stanza da letto di Leela, dove le due donne iniziano una conversazione sulla vita e sul “mestiere” che le porterà a svelare ai lettori tutto quello che ruota intorno alle esistenze di queste danzatrici, i sogni d’arte, il commercio, la violenza, le umiliazioni da parte di protettori, clienti e poliziotti. Questo primo incontro di Leela con la scrittrice è molto intimo, fin dalle prime battute, ma non è per nulla privato: accanto a loro, infatti, pesantemente addormentato nel letto della prostituta-ballerina, c’è uno dei tanti “kustomer” (clienti) della ragazza. “Beautiful Thing”, attraverso le vicende di Leela e delle sue sorelle (spesso anche hijra, uomini transgender), ci porterà a “vivere” le notti, gli incontri nei locali di Mumbai, dove la danza - spesso solo uno schermo per la professione più antica del mondo - viene vissuta dalle ballerine come momento di riscatto dagli abusi subiti nei villaggi rurali dai quali quasi tutte sono fuggite per cercare un’illusione di notorietà e di ricchezza nella megalopoli. Fino all’epilogo della “liberazione” per legge, con la chiusura dei bar-postribolo, che rigetta sulla strada le ragazze, trovatesi improvvisamente indipendenti ma esposte più di prima ai ricatti del mondo (maschile). Ricco di dettagli, e scritto in un linguaggio che rispecchia la neolingua inglese parlata nei bassifondi di Mumbai (“bijniss” per business; “hensum” per handsome, per fare qualche esempio), il libro apre una finestra sconvolgente (per noi occidentali e per chi, tra noi, non abbia visitato questi luoghi o ancora letto altri esempi di letteratura dei bassifondi indiana) su uno dei mille mestieri della “grande fiera segreta” del sesso dell’India. Quest’ultima fatica di Sonia Faleiro (che aveva già contributo con i suoi reportage all’antologia “AIDS Sutra”) è stata accolta dalla critica britannica (ma anche dal New York Times e dal Wall Street Journal) con lodi sperticate e sicuramente meritate.

lunedì 29 agosto 2011

Auguri e figlie femmine

Apple e Thomas, spose felici
MALAYSIA - In un Paese multi-etnico e multi-culturale come la Malaysia non è difficile trovare storie che contraddicono l’immagine conservatrice e moralista preferita dalle autorità al potere (da sempre). Il caso del matrimonio omosessuale del pastore cristiano Ou Yang Wen Feng, le cui pubblicizzatissime nozze (a New York) sono imminenti, non è isolato. Altre due persone, donne questa volta, della folta comunità cinese-malese sono finite in questi giorni sulle pagine dei giornali per una storia d’amore non convenzionale. Si chiamano “Apple” e “Thomas” (gli appellativi che si sono scelte, non sappiamo quali siano i loro veri nomi cinesi) sono due ragazze lesbiche di 27 e 29 anni, che lavorano come ‘property brokers’ nel distretto meridionale di Batu Pahat, non lontano dal confine con Singapore. Le giovani, coppia innamoratissima e felice ormai da due anni, hanno deciso recentemente di fare, anche loro, il grande passo e di “sposarsi”, formalizzando il loro sogno di felicità. Matrimonio non legale, perché la Malaysia a maggioranza musulmana aborre questo tipo di unioni, e nondimeno benedetto da un prete taoista, in una cerimonia tenuta di fronte a un folto gruppo di amici e parenti. Per nulla intimorite dalla riprovazione - immaginiamo - degli anziani della loro stessa comunità (per non parlare delle autorità), Apple e Thomas hanno fatto tutto in pubblico, sfidando la morale comune e le possibili ripercussioni legali e perfino politiche del loro gesto, arrivando ad aprire una pagina di Facebook dedicata alla propria unione. Nel loro spazio (vedi link nella colonna a sinistra) hanno subito postato un album (intitolato "Le lesbiche più felici") con le foto della cerimonia, celebrata nello stile più classico e - se vogliamo - conservatore preferito da quasi tutti gli altri giovani cinesi-malesi eterosessuali: abiti bianchi (lungo e col velo per Apple, giacca, pantaloni, orchidea all'occhiello, per Thomas), preghiere al tempio, cerimonia cinese del té, inchini ai genitori e omaggio alle immagini votive degli antenati scomparsi. Il tutto coronato, come si conviene, da un bel rinfresco, dal lancio del bouquet e dalla fuga finale delle due sposine su un bel macchinone nero addobbato con fiocchi e decorazioni floreali. Entusiastiche le reazioni dei fans vecchi e nuovi della coppia, che in pochi giorni si sono iscritti a migliaia (9.880 al momento di pubblicare questo Post) alla loro pagina sul più famoso social network globale. In prima fila altre lesbiche malesi, soprattutto di etnia cinese, ma molti anche gli auguri di giovani eterosessuali e di altre etnie e nazionalità. Tra i commenti, la parola “invidia”, una delle più ripetute, e i sospiri di molte ragazze che non hanno ancora avuto i mezzi, la possibilità o il coraggio di seguire la stessa strada (ancora molto in salita e perigliosa, in Asia come altrove).

domenica 28 agosto 2011

Il Parco dell'Amore di Jeju

Una scultura "interattiva" di Loveland
COREA DEL SUD - Un altro Paese asiatico dove l’amore e il sesso - intesi come momenti gioiosi e anche di gioco - stanno rapidamente perdendo l’aura negativa di argomenti imbarazzanti o decisamente tabù, è la Corea del Sud (in quella del Nord il sesso ricreativo, la pornografia e il concubinaggio sembra siano riservati al solo dittatore Kim Yong Il e alla sua Corte, mentre per il Popolo vige ancora una durissima morale oscurantista). Il Paese si è aperto solo nell’ultimo decennio alla marea globalizzata del libertinismo pubblico ma molte dighe sono crollate rapidamente, a cominciare - come sempre - dal campo musicale e artistico. Mentre fino a pochi anni fa baciarsi in pubblico era ancora considerato un reato contro la decenza e la Polizia girava per le strade di Seoul a misurare con il righello la lunghezza delle gonne delle ragazze, oggi i gruppi pop femminili sudcoreani dettano legge in tutta l’Asia, con videoclip e concerti ad altissimo tasso erotico. Uno dei simboli di questo inarrestabile “declino dei costumi” è senza dubbio Loveland, il primo parco artistico dedicato esplicitamente al tema del sesso, con un approccio che definire ironico e irriverente ci sembrerebbe riduttivo. La location - l’isola meridionale di Jeju - non è esattamente di mano anche per chi viva in Corea, ma un moderno aeroporto, che la collega a Seoul e ad alcuni scali internazionali, permette agli interessati (molti) di raggiungere facilmente questo sorprendente monumento alla lussuria. Una scelta, quella di Jeju, che onora in qualche modo una tradizione dell’isola, luogo remoto e discreto dal clima piacevole e temperato, da sempre preferito dalle giovani coppie di sposi coreani per trascorrere la luna di miele e consumare la prima notte di nozze in un clima rilassante e dove, per “aiutarle a rompere il ghiaccio”, i proprietari degli alberghi locali sono soliti organizzare piccoli spettacoli erotici d’incoraggiamento, che in molti casi fungono anche da rapidi corsi di iniziazione sessuale per i meno preparati (la Corea del Sud ha il tasso di fertilità più basso tra i Paesi OCSE). Il parco-museo, inaugurato nel 2004 su un’estensione di quasi 40 mila metri quadrati di prati alberati, ospita un’esibizione (!) permanente, all’aperto, di 100 sculture (anche "interattive") di organi sessuali e di uomini e donne in ritratti da soli o nel corso di amplessi, in pose erotiche o comunque nude-look, e altre 40 statue esposte (!!) in una capiente e moderna galleria coperta, sede anche di mostre temporanee sul tema. Il “tema” essendo, appunto, il sesso tra umani (ma ci sono anche alcune rappresentazioni, ironiche, di amore o "nudità" animale e qualche accenno a creature mitologiche), sviluppato in quasi ogni suo aspetto, lasciando volutamente libero sfogo alla fantasia e alla perversione degli artisti. Aperto con il contributo iniziale di giovani laureati della prestigiosa accademia d’arte dell’Università di Hongik (Seoul), il parco-museo si è progressivamente arricchito anche di opere di artisti più famosi ed oggi vanta lo status di opera di interesse artistico e turistico di primo piano, figurando tra le destinazioni suggerite ai turisti stranieri dal serissimo Ente del Turismo della Corea del Sud. Presentato da un website coloratissimo come “il posto dove l’arte centrata sul sesso e l’erotismo si incontrano”, Loveland promette un’esperienza unica ai visitatori che vogliono “apprezzare la naturale bellezza della sessualità”. Perfetta, e politicamente corretta, l'organizzazione, che fornisce gratuitamente sedie a rotelle, offre rampe d’accesso per disabili e un piccolo nido per ospitare i bambini (il Parco è vietato ai minori di 18 anni) durante le visite dei genitori. Sconti sul prezzo del biglietto (5,7 euro) sono previsti per anziani e pensionati, che ogni anno affollano Loveland a migliaia, e sembrano divertirsi molto. Orari d’apertura molto larghi, dalle 9 del mattino alle 24 (le opere sono illuminate e ancora più “sensuali” nel buio). Ultima annotazione: le sculture si possono toccare.

sabato 27 agosto 2011

Krishna e il Terzo Sesso

La vincitrice del concorso "Miss Koovagam 2011"
INDIA - Il villaggio di Koovagam, nel Distretto di Lillupuram (Tamil Nadu) è considerato la capitale asiatica - e forse mondiale - dei transgender, di chi cioè non si identifica con il sesso (maschile o femminile) attribuitogli alla nascita sui documenti medici, dallo Stato Civile o dalla famiglia. In India, dove vive - mostrandosi pubblicamente - una numerosa popolazione del cosiddetto Terzo Sesso, le hijra, le differenze e “anomalie” di genere sono relativamente più tollerate che in altri Paesi del Continente (con le positive eccezioni delle Filippine e della Thailandia). Questa accettazione di fatto è addirittura riconosciuta per legge nel Tamil Nadu, lo Stato più progressivo e liberale in materia, dove nei censimenti si può dichiarare di essere maschi (M), femmine (F) o, appunto, transgender (T). E proprio in Tamil Nadu si tiene ogni anno il Festival di Koovagam, la più famosa manifestazione pubblica dell’orgoglio tansgender. Per 18 giorni, nel mese di aprile, questo piccolo e altrimenti anonimo centro rurale apre le sue porte alle hijra provenienti da tutto il Paese per un evento colorato e festoso, che trova le sue radici nelle leggenda epica hindu del Mahabarata e che celebra uno dei più famosi accoppiamenti (anche sessuali) tra un uomo e un dio, per l'occasione in versione transgender. Parliamo del mitico matrimonio del dio Krishna - in sembianze femminili - con il guerriero Aravaan che, destinato al sacrificio per ottenere l’agognata vittoria sui malefici Pandava, aveva richiesto, prima di morire, il privilegio di sposarsi e di consumare una notte d’amore. E proprio a ricordo di quest’unione “divina”, e in onore a Krishna, il culmine del Festival di Koovagam è rappresentato dal “matrimonio” collettivo e simbolico dei transgender con Aravaan, celebrato al tempio hindu di Koothandavar con la benedizione dei sacerdoti locali, e seguito da grandi festeggiamenti. Il Festival del Tamil Nadu - che oggigiorno si conclude con l'elezione di "Miss Koovagam" - offre a questa minoranza indiana, costretta spesso a prostituirsi per trovare mezzi di sostentamento, un’occasione pubblica per rafforzare i legami tra le varie “case” o comunità nelle quali le hijra vivono, unici luoghi di autodifesa, affetto, aiuto e solidarietà pratica. Spesso raccolte attorno a una “guru” (maestra, guida) - una di loro con più esperienza e più in avanti con l’età - le hijra negli ultimi anni hanno iniziato ad acquistare visibilità, coraggio e coscienza di sé, anche grazie all’aiuto di numerose organizzazioni della società civile, ONG e agenzie ONU che hanno dato vita a progetti per l’educazione e il sostegno materiale, soprattutto rivolti agli elementi più deboli come i bambini e i giovanissimi del terzo sesso che, respinti dalle famiglie ai primi “sintomi” di differenza, finiscono inevitabilmente per le strade a mendicare o a farsi sfruttare sessualmente da adulti senza scrupoli.

La carestia delle donne

Spose bambine in India
INDIA - Alcuni Stati dell’India soffrono di una particolare carestia, endemica ormai da molti anni. È una carestia per la quale la Natura non ha alcuna responsabilità e che vede l’Uomo (e soprattutto gli uomini, con la ‘u’ minuscola) portare per intero la colpa. Stiamo parlando della cosiddetta “carestia di spose”, la mancanza di donne in età da marito causata dalle scelte famigliari di molti indiani che preferiscono avere figli di sesso maschile. Questo pregiudizio di genere, nelle zone più povere è la causa di uno dei crimini più efferati ma socialmente tollerati in India, l’infanticidio delle bambine, mentre tra i ceti ricchi induce le coppie a rivolgersi sempre più spesso alle cliniche della fertilità per determinare il sesso (maschile) del nascituro. Il risultato di questa umana intrusione negli equilibri naturali è un cronico squilibrio nella proporzione donne/uomini, che nel Punjab (893 femmine ogni 1000 maschi) e nell’Haryana (877 contro 1000) raggiunge ormai livelli allarmanti. Le conseguenze si fanno sentire anche e soprattutto quando, nei villaggi e nei piccoli centri rurali, viene il tempo per i giovani uomini di trovare una compagna. Poiché non ci sono donne a sufficienza per tutti, i maschi di questi due Stati finiscono per procacciarsi le spose in altre regioni (i poverissimi - ma ben dotati di popolazione femminile - Assam, Orissa, Bengala Occidentale, Jharkhand e Bihar), tramite agenzie, amici o mediatori, che fanno della compravendita con le famiglie (povere) delle future mogli, un fruttuoso business. La prassi - siamo pur sempre in un Paese dove i matrimoni combinati sono una tradizione consolidata - non tiene ovviamente in alcuna considerazione sentimenti “irrilevanti” come l’Amore, e si risolve, appunto, in un accordo mercantile dove l’uomo retribuisce i genitori, rinunciando alla tradizionale dote e avendo in cambio “l’uso” esclusivo di una figlia, spesso giovanissima. E proprio di “uso” in molti casi si deve parlare, perché queste ragazze povere e comprate - che sono quasi sempre di una casta inferiore a quella dello sposo, parlano un’altra lingua e non hanno alcun legame culturale e affettivo con la società che le accoglie, e si ritrovano inevitabilmente nel doppio ruolo di moglie (intesa come oggetto sessuale e di riproduzione) e di donna delle pulizie, costretta a mille lavori domestici, spesso anche a favore della famiglia allargata del marito-padrone. “Sposarsi con una donna ‘importata’, dipende solo dal prezzo”, sostiene Rishi Kant della ONG Shakti Vahini. “I mariti sono disposti a pagare cifre varianti tra le 50 mila e le 300 mila rupie (da 750 a 4.500 euro), a seconda dell’età, dell’aspetto e, naturalmente, della verginità o meno della ragazza”. Non è raro, infine, che dopo alcuni anni di “servizio” queste donne “straniere” vengano ripudiate o vendute a un altro uomo, rendendo la loro vicenda ancora più tragica. Il traffico delle spose è uno dei segreti più noti della società indiana, ma nelle campagne (e in Parlamento) non si ama parlarne apertamente. I risultati di un recente studio condotto in 92 villaggi dell’Haryana - e pubblicato dal quotidiano The Hindu - ha rivelato che su 10 mila famiglie intervistate oltre 9 mila “mogli” provenivano da altri Stati. “In ogni villaggio ci sono almeno 50 ragazze comprate fuori dallo Stato” si legge nel rapporto finale. “Alcune sono giovanissime (fino a 13 anni) e solo una piccola percentuale è davvero trattata come moglie, mentre per le altre sarebbe più corretto parlare di vera e propria servitù femminile”.

venerdì 26 agosto 2011

Festa & Fertilità

Il Festival Kanamara Matsuri
GIAPPONE - Una società come quella giapponese, generalmente considerata altamente repressa, sul posto di lavoro, a scuola e tra le mura di casa, trova spesso sfogo e rifugio in momenti di eccesso e di liberazione, privata o collettiva, che contrastano non poco con l’immagine di compostezza del popolo del Sol Levante. Uno di questi rari eventi, poco conosciuti dal grande pubblico, è il festival di Kanamara Matsuri (letteralmente, il Dio-Grande-Pene-di-Ferro), celebrato ogni prima settimana di aprile nella città di Kawasaki. Un evento che gode di grande rispetto e considerazione da parte di uomini, donne, giovani e anziani della città, e che ogni anno vede la partecipazione di migliaia di persone venute anche da altre zone del Giappone, tra le quali, occasionalmente, anche molti sorpresissimi turisti stranieri. Contrariamente a quanto uno scettico osservatore occidentale potrebbe sospettare, il Kanamara Matsuri non è il prodotto pubblicitario di una qualche televisione in cerca di facile audience o di uno sponsor del fiorente business pornografico giapponese, ma rispecchia una serissima tradizione shintoista (la religione del 90% dei giapponesi), intesa a celebrare la Fertilità e che viene fatta risalire al 1600. L’evento ricorda infatti la cruda leggenda della battaglia di una ragazza contro un demone dai denti taglienti e acuminati che si era nascosto nella sua vagina e aveva ridotto a mal partito, uno dopo l’altro, i malcapitati uomini che la giovane aveva sposato. Per distruggere quella presenza malefica, la damigella si era allora rivolta a un fabbro, commissionandogli un grosso pene di ferro con il quale si era alla fine liberata di quell’ospite ostile e indesiderato. La manifestazione di Kawasaki, che dura un’intera settimana, ha un programma fitto di cerimonie, letture pubbliche, appassionati dibattiti, mercatini (sulle bancarelle, naturalmente, in vendita peni di legno di ogni foggia e dimensione) e distribuzione di cibarie “in tema” (molte le torte e gelati che ricordano le forme dell’organo maschile), e culmina in un grande corteo nelle strade addobbate di rosa, al seguito di una gigantesca riproduzione di un pene in pesante ferro nero, portata a spalla dai fedeli fino al tempio shintoista di Kanayama. Nonostante l’origine e l’impronta religiose della manifestazione, l’evento si arricchisce oggi anche di aspetti gioiosi, grazie all’iniziativa dei giovani della città, che aggiungono tocchi di fantasia e modernità portando in corteo anche statue “alternative”, di legno o cartapesta, tra le quali un grande pene rosa fabbricato dalle ragazze, che è diventato il vero simbolo della festa. Negli ultimi anni, il festival si è poi aperto anche a nuovi temi e significati, con la partecipazione di ONG e associazioni laiche che ne hanno fatto un’importante occasione per sensibilizzare la pubblica opinione sulla lotta all’HIV-AIDS e altre malattie a trasmissione sessuale e raccogliere fondi per la ricerca medica.

giovedì 25 agosto 2011

Ragazze, non perdete la testa...

Donne fermate dalla Polizia di Aceh
INDONESIA - La “regione speciale” di Aceh, all’estremo Nord dell’isola di Sumatra, non smette mai di fare notizia e di sorprendere l'opinione pubblica indonesiana. Segnata da un tragico passato recente - la guerriglia infinita degli indipendentisti musulmani e il devastante tsunami del 2004 - Aceh vive da qualche anno una precaria pace interna, grazie alla larga autonomia concessa dal Governo di Jakarta all’indomani del maremoto, che ha convinto i ribelli a deporre le armi. Prezzo pagato dal Potere Centrale, l’accettazione della Legge Islamica (Sharia) per regolamentare a livello locale una serie di “violazioni” in possibile contrasto con la prevalente tradizione musulmana del territorio. Grazie alla sostanziale non-interferenza delle più laiche autorità nazionali, il Parlamento locale in questi ultimi anni ha progressivamente accentuato un'ampia serie di restrizioni alla morale pubblica, istituendo una polizia speciale (Wilayatul Hisbah) incaricata di sorvegliare e reprimere comportamenti individuali o collettivi giudicati “licenziosi”, reintroducendo la pratica della fustigazione in pubblico e rafforzando il potere dei consigli di villaggio a forte impronta islamica. In questo clima da perenne guerra santa contro i costumi “modernisti” e anti-islamici”, non passa dunque mese senza che la stampa indonesiana riporti qualche exploit della “Polizia della Morale”, spesso accusata - soprattutto dai giovani e dalle donne - di comportamenti violenti e di abusare dei propri poteri con mano particolarmente pesante. Clamoroso il caso, nel 2010 della campagna per imporre l’uso di gonne lunghe alle donne, con i poliziotti della Sharia dispiegati nelle strade per fermare tutte le passanti sorprese a vestire in pantaloni, obbligandole a cambiarsi con gonne fornite dal Governo locale (20 mila, secondo le stime ufficiali). Ha perciò destato qualche sorpresa la relativa clemenza mostrata nei giorni scorsi dalle autorità verso due giovani donne lesbiche, arrestate per avere contratto matrimonio, falsificando le generalità di una di loro (presentatasi di fronte al prete islamico con nome e sembianze da uomo). Le ragazze, Nuraini di 21 anni (la “moglie”) e Rinto, 25, (vero nome Rohani, nei panni del “marito”) sono state scoperte solo dopo qualche mese, nel villaggio dove si erano stabilite, e portate in prigione. Il caso è sembrato subito alle autorità alquanto difficile da maneggiare perché il Qanun, che regolamenta l’applicazione della Legge Islamica di Aceh, non prescrive ancora chiaramente una punizione per il “reato di lesbismo”. Dopo tre giorni in cella, le giovani sono state rilasciate, non prima però di avere firmato - di fronte ai leader religiosi - l’impegno a lasciarsi e a non vedersi mai più, e quindi affidate ai rispettivi genitori. Spiegando la decisione, il Capo della Polizia del Distretto di Aceh SudOccidentale, Muddasir, ha dichiarato alla stampa di avere personalmente raccomandato agli anziani del villaggio “di non picchiarle, perché le ragazze hanno promesso di pentirsi dei loro peccati. I leader locali si sono presi l’impegno di impedirgli di rivedersi. Le controlleranno e le guideranno. Naturalmente” ha concluso Muddasir, “loro hanno accettato subito altrimenti probabilmente le avremmo dovute decapitare, perché quello che hanno fatto è decisamente vietato dall’Islam”.

Due cuori e una copertina (rosa)


Copertine della Precious Heart Romances 
FILIPPINE - Leggere romanzi apre la mente e il cuore a mondi meravigliosi, ma può ovviamente servire semplicemente a rilassarsi, a passare il tempo e a farsi compagnia da soli. Nelle Filippine, leggere romanzi - d’amore - aiuta anche a dimenticare la povertà, a trovare la motivazione per continuare a vivere e, perfino, ad imparare, o re-imparare, la propria lingua. Un’istituzione del genere è il colosso editoriale Precious Hearts Romances, con la omonima collana, la versione locale di Harmony o dei romanzetti di Mills and Boon, che pubblica brevi (128 pagine massimo) novelle, dense di intrecci amorosi popolarissime tra i filippini dei ceti medi e poveri, per le trame avvincenti, la facilità di lettura e per il prezzo di vendita volutamente tenuto bassissimo (70 centesimi di euro). Gli autori sono spesso scrittori non professionisti, casalinghe, studenti, impiegati con la necessità di arrotondare lo stipendio, i più prolifici dei quali in media producono un romanzo d’amore in 4 settimane. Ogni titolo ha una tiratura iniziale garantita di 5 mila copie. “Roba da far morire d’invidia gli scrittori seri che, se vendono 1.000 copie, sono contenti...”, per citare le parole di  Maia Jose, con Martha Cecilia, Tara FT Sering e Rose Tan una delle “Liala” più prolifiche e amate dai filippini. Gli autori rosa sono spesso gente qualunque, anonima (solo pochi, i più bravi, diventano famosi) che non spera certo di farsi ricca (il compenso medio per un autore è di 100 euro a titolo) ma con la capacità di raccontare su carta storie di gente come loro, in un linguaggio semplice, parlato dal filippino della strada e delle baraccopoli, senza fronzoli o inutili invenzioni semantiche. Poche parole chiave, sempre le stesse: tanto Amore, molti Baci, pochissimo o niente Sesso, semplicemente ammiccato e in ogni caso sempre e solo tra un uomo e una donna, meglio se fidanzati o già sposati. Vietati, in nome del rispetto della sensibilità cattolica, tradimenti, relazioni extra-coniugali, avventure di una notte e immoralità del genere. Impensabile scrivere di aborto, divorzio e omosessualità o altre innominabili barbarie, peraltro ancora illegali nelle Filippine, dove la Chiesa Cattolica ha lo stesso potere e più influenza dello Stato, soprattutto tra le classi povere. Il pubblico più fedele di questa famosissima collana di romanzi rosa è fatto, appunto, in maggioranza di filippini poveri o poverissimi, lavoratrici domestiche, casalinghe, disoccupati, che leggono per dimenticare le proprie vite sfortunate e per sognare un riscatto che forse mai verrà. Tra loro, anche moltissimi dei nove milioni di filippini emigrati per trovare lavoro all’estero, che si fanno mandare i romanzi da casa e se li passano di mano in mano. Secondo Dennis Gonzalez, presidente del Centro Nazionale per lo Sviluppo del Libro, i romanzi rosa costituiscono uno strumento importante per interessare queste categorie di persone alla lettura (solo il 22% dei filippini legge almeno un libro all’anno) ampliare la conoscenza della lingua nazionale (Tagalog) e combattere l’analfabetismo di ritorno che colpisce molti dopo l’abbandono della scuola. "Meglio leggere questi librini, che passare il tempo incollati alla TV o a scambiarsi sms...". Alcune serie più fortunate della Collana, come “Bud Brothers” di Rose Tan, sono diventati piccoli o grandi casi editoriali, arrivando a vendere oltre 15 mila copie delle prime edizioni, e sono assurte agli onori della televisione (il popolare canale ABS-CBN), che le ha trasformate in seguitissime telenovelas. Un destino e una fama che mai toccheranno ai primi timidi tentativi di letteratura soft-porno filippina, come la semi-clandestina serie Literotika, che negli ultimi dieci anni è riuscita a pubblicare solo quattro romanzi, mai arrivati sugli scaffali delle librerie.

mercoledì 24 agosto 2011

Niente hostess al silicone

Hostess di Garuda Indonesia
INDONESIA - La bella presenza, in una hostess o uno steward, è una cosa che i passeggeri di un volo aereo si aspettano e danno per scontata, soprattutto in Asia dove gli equipaggi sono sempre più giovani e provenienti da un ampio spettro di Paesi considerati esotici. La preferenza per uno staff di gradevole aspetto, elegante e sempre sorridente, viene ammessa apertamente da pochi di noi (salvo poi darsi di gomito e commentare negativamente quando il personale di bordo non sfoggia un look da modella/o), e non è mai ammessa apertamente dalle compagnie aeree asiatiche che - in omaggio ai tempi sempre più politicamente corretti, anche nel Continente - indicano come criteri di selezione dello staff solo (o soprattutto) “l’ottima salute, la professionalità, e la capacità di rispondere a un’emergenza”. Non sorprende dunque che le selezioni di nuove hostess siano precedute da accurate visite mediche e psico-attitudinali, che dovrebbero garantire l’assunzione di candidati in linea con questi requisiti. Ha suscitato però un coro di proteste la decisione dell’ufficio di Seoul della compagnia di bandiera indonesiana Garuda di sottoporre le giovani coreane candidate al ruolo di assistente di volo a un controllo manuale del seno e alla richiesta di spogliarsi completamente, per “verificare la presenza di tatuaggi sul corpo”. La denuncia, rilanciata dall’agenzia di Seoul “Yonhap”, è venuta da una ragazza, scioccata per essere stata sottoposta al controllo, oltretutto effettuato da parte di un team di dottori maschi (pur coadiuvati da un’assistente donna). Confuse e imbarazzate le reazioni della società che, per bocca di diversi portavoce, ha prima ammesso e poi negato la pratica. Secondo un funzionario dell’ufficio coreano di Garuda, il test era “necessario per controllare se le candidate avevano protesi al silicone” (in Asia sono in aumento le operazioni - anche tra le giovanissime - per accrescere la taglia del seno), che in caso di de-pressurizzazione della cabina potrebbero esplodere rendendo l’hostess “inabile a supportare i passeggeri”. Veemente, invece la smentita dell'Ufficio centrale di Jakarta, secondo il quale un simile test “manuale” non è previsto dagli standard operativi delle Risorse Umane. Pressata dalla stampa e dalle associazioni femministe, la società ha però dovuto ammettere che - come altre compagnie aeree - non assume per il ruolo di hostess donne con protesi al seno, così come, per motivi di decoro, vengono scartati quei candidati, maschi o femmine, che abbiano tatuaggi sul corpo. “Mi chiedo allora perché non proibiscono di volare anche alle passeggere con i seni rifatti”, ha commentato serafica Mariana Amiruddin, direttrice del “Jurnal Perempuan”, battagliero giornale indonesiano per la difesa dei diritti delle donne.

Non bussate a quella porta...

INDONESIA - Le televisioni private indonesiane hanno fatto la propria fortuna con telenovelas e programmi di gossip (la cosa non dovrebbe suonare nuova al pubblico italiano...) e ogni giorno trasmettono ore di interviste alle cosiddette “selebriti”, politici, star e starlette della musica e delle “sinetron”, le soap opera di produzione locale. Controversie famigliari, litigi, amori, scappatelle, matrimoni e divorzi vengono esposti quotidianamente, senza troppe censure, alla curiosità dei telespettatori, avidi di dettagli delle vite private di personalità più o meno famose, che spesso aprono volentieri la porta di casa ai cronisti di gossip, per farsi un po’ di pubblicità e tenere vivo l’interesse dei fan e degli elettori, in un ambiente pubblico spietato e altamente competitivo come quello indonesiano. Scontati dunque l’attenzione e l’interesse suscitati, nei giorni scorsi, da un filmato amatoriale trasmesso e ritrasmesso con grande enfasi da tutte le tv sull’ultimo scandalo sessuale - in ordine di tempo - che ha visto come involontari protagonisti, questa volta, una deputata e un deputato regionale di Belitung, sorpresi dalla moglie dell’uomo in una camera d’albergo di Jakarta. La signora, che da mesi sospettava la tresca e pedinava il marito, ha bussato alla stanza, accompagnata dalla figlia e dal capo dell’intelligence della Polizia del distretto di Jakarta Centrale. Di fronte al silenzio degli occupanti, la donna non ha desistito, si è fatta dare un passepartout e ha aperto la porta. La scena è stata ripresa in diretta, probabilmente con una piccola videocamera o con uno smartphone e consegnata alle televisioni. Nel filmato si vedono i due amanti tentare di coprirsi con cuscini e protestare la propria assoluta innocenza. Il particolare più interessante è però l’identità politica dei due fedifraghi: la donna, Hellyana, esponente del conservatore e filo-islamico Partito Unito dello Sviluppo (PPP), e l’uomo, Mahadir Basti, speaker del Parlamento regionale e autorevole membro del Partito della Mezzaluna (PBB), anch’esso di ispirazione religiosa, due formazioni in prima fila nel castigare i costumi sessuali più liberali, soprattutto durante il mese sacro del Ramadan. Inutili le proteste della coppia, scortata in commissariato dalla Polizia per rispondere della denuncia della moglie tradita (l'adulterio è un serio crimine in Indonesia). Vani anche i tentativi di far sopire l'interesse di giornali e TV, con la deputata impegnata a presentare versioni alternative della vicenda (ha dichiarato ai giornalisti e di essersi trovata in camera con il collega "per chiedere consigli politici") e l'uomo che cercava di fermare l'ondata di dichiarazioni pubbliche della consorte (arrivando fino ad intimarle il silenzio in diretta mentre lei dava un'intervista a una radio privata). Lo scandalo dei due deputati di Belitung, amplificato dai media, segue di poco un altro clamoroso scivolone di un politico conservatore, il deputato nazionale Arfinto, dell’ultrareligioso Partito della Giustizia e della Prosperità (PKS) fotografato in aprile mentre guardava siti porno sul proprio iPad durante una sessione dei lavori parlamentari. Scaricato dal suo gruppo, il deputato ha annunciato l’intenzione di dimettersi.

Fratelli coltelli in salsa australiana

Su fronti opposti: Carl e, nel riquadro, Bob Katter 
AUSTRALIA - L’Australia, già divisa su tutto, dalla Carbon Tax sui grandi inquinatori all’uso delle truppe di pace, dalla strategia per contenere l’afflusso di boat people asiatici, alla tinta dei capelli (rossissima) del suo Primo Ministro donna, sembra avere trovato un nuovo fronte di battaglia sul tema dei matrimoni tra persone dello stesso sesso. Finora proibite dalla Legge (il Marriage Act), le unioni di gay e lesbiche sono tornate al centro del dibattito politico con il lancio di una serie di petizioni popolari di segno opposto corredate da sondaggi commissionati dagli attivisti pro e contro, che hanno dato risultati assolutamente contrastanti. Nel rurale, profondo Queensland, ad esempio, solo il 2% degli intervistati si sono detti a favore dei matrimoni gay, ma nella città di Melbourne, moderna e liberale, circa il 90% dei cittadini si sono pronunciati per il cambiamento della legge. Mentre la Campagna "Australian Marriage Equality" e le associazioni che chiedono una liberalizzazione - in prima fila il partito dei Greens (Verdi ecologisti) e l'organizzazione progressista GetUp! - hanno lanciato una raccolta di firme online per sostenere i matrimoni omosessuali, un composito fronte tradizionalista (con in testa l’Australian Christian Lobby, ma  guidato anche da una deputata laburista) ha appena depositato in Parlamento una petizione firmata da 52.300 cittadini che chiedono di non cambiare la definizione di matrimonio (tra un uomo e una donna). Uno dei più accesi oppositori di qualsiasi concessione ai gay è l’anziano parlamentare conservatore Bob Katter, protagonista pochi giorni fa di una rumorosa dimostrazione di attivisti cristiani nel cuore del Parlamento di Canberra. In quella occasione, il politico ha rilasciato dichiarazioni di fuoco contro i gay e in difesa dei valori della famiglia, sostenendo che i matrimoni omosessuali spianerebbero la strada alla pedofilia e alle unioni “tra uomini adulti e bambini”. La manifestazione ultra-conservatrice, che ha avuto grande eco, si è però rivelata un boomerang (siamo pur sempre in Australia...) per i suoi promotori, perché l’uscita di Bob Katter ha provocato la reazione di un avversario inatteso: il fratellastro minore del deputato, Carl, che ha deciso di fare un clamoroso ‘outing’ convocando una conferenza stampa, annunciando di essere gay e di avere il pieno supporto della propria famiglia. In un’intervista televisiva, il giovane si è detto offeso dalle bugie del fratello, accusandolo di fomentare l’odio e la violenza contro i gay e le minoranze in genere. Lo sdegno pacato e il coraggio di Carl hanno provocato un’immediata reazione tra l’opinione pubblica, con un una corsa su Internet a firmare la petizione a favore delle unioni gay. La battaglia prosegue.

Le schiave e la Memoria

Una donna filippina, ex schiava dei giapponesi
FILIPPINE - La tragica vicenda delle ianfu, le “donne da conforto” (o, più propriamente, schiave sessuali) dell’Esercito Giapponese ŗesterà per sempre una delle pagine più nere della nerissima storia dell’occupazione militare nipponica dell’Asia del SudEst, durante la Seconda Guerra Mondiale. Nei lunghi anni del conflitto sul fronte orientale, da 20 mila (stime al ribasso degli storici revisionisti giapponesi) a 400 mila (stime cinesi) bambine e giovani donne dei Paesi asiatici caduti sotto il controllo militare imperiale vennero fatte prigioniere e costrette a lavorare come schiave nei bordelli aperti per le truppe del Sol Levante. Le sopravvissute a quelle atrocità scientificamente organizzate dai leader militari e poi sempre negate anche dopo l’avvento della democrazia a Tokyo, sono oggi anziane, ma molte di loro ancora si battono per chiedere che il Giappone ammetta le proprie responsabilità. Associazioni, gruppi, fondazioni spesso guidate dai figli delle ianfu, sono sorti in ogni Paese dell’Asia e molti libri sono stati scritti per documentare questo tragico esempio dell’uso del sesso come arma di guerra in Asia (una pratica che continua tutt’ora, in alcune aree di conflitto, come il Nord della Birmania). Alcune ex schiave ancora oggi partecipano a dimostrazioni e sit-in, per domandare giustizia, di fronte a ambasciate e rappresentanze giapponesi. I loro volti, i loro racconti e le loro lacrime sono prove inoppugnabili dell’orrore subito, testimonianze che colpiscono e scuotono le coscienze di chi ha la possibilità di incontrarle, poiché il pubblico asiatico è molto poco informato o spesso, come in Giappone, è tenuto volontariamente all’oscuro di questo vergognoso e imbarazzante capitolo della Storia della regione. A distanza di 76 anni dalla fine del conflitto mondiale, queste donne coraggiose sono ormai rimaste in poche e la loro voce rischia di scomparire nell’oblio. Per cercare di tenere viva la memoria, si moltiplicano in questi ultimi anni iniziative educative, come l’apertura di musei online, mostre fotografiche itineranti, e la raccolta di interviste audio e video alle ultime sopravvissute. Nelle Filippine, Paese che versò un pesante tributo alla maniacale sete di schiave dell’Esercito giapponese - ma nel quale la prima testimonianza pubblica venne alla luce solo nel 1992 - è stato da poco completato un documentario che racconta le storie di alcune decine di loro. Il video, di un giovane regista giapponese che risiede nelle Filippine, è intitolato “Katarungan! Justice for the Lolas” (‘lola’ significa nonna, in lingua Tagalog) e raccoglie le parole e le ultime immagini di queste donne, oggi ultra-ottantenni, che hanno avuto il coraggio di vincere la vergogna delle proprie famiglie e lo stigma sociale e uscire allo scoperto.

martedì 23 agosto 2011

Squillo d'allarme

Il deputato Craig Thomson
AUSTRALIA - Il Governo guidato dalla Prima ministra Julia Gillard non ha avuto vita facile fin dalla nascita, dopo la risicata vittoria laburista alle elezioni del giugno 2010. Una fragilità dovuta alla linea politica confusa e a una leadership inadeguata - secondo molti analisti e, naturalmente, secondo l’Opposizione conservatrice - ma anche all’oggettiva debolezza dell’Esecutivo in Parlamento, dove si regge su una risicata maggioranza di soli 2 voti, grazie al sostegno esterno di 4 deputati indipendenti. Le difficoltà della Premier (la prima donna ad assurgere a questo incarico in Australia) potrebbero però farsi presto ancora più gravi. La Polizia del Nuovo Galles del Sud sta infatti stringendo i tempi di un’inchiesta in corso da ormai due anni e che vede indagato l’importante deputato federale laburista Craig Thomson, sorpreso a utilizzare i servizi delle prostitute di una casa di piacere di alto bordo. Le prove della frequentazione del bordello sembrano irrefutabili, ma non è questo a impensierire il Governo laburista. Pagare una prostituta, infatti, non costituisce reato nella sanguigna Australia, né motivo di decadenza dagli incarichi pubblici. L’accusa che mette in fibrillazione l’Esecutivo e il Partito è che per soddisfare i propri passatempi Thomson all’epoca avrebbe usato fondi e carte di credito dell’Unione dei Lavoratori della Sanità, sindacato di cui era Segretario generale prima dell’elezione in Parlamento. Se riconosciuto colpevole, il deputato - che nei giorni scorsi si è dimesso dalla presidenza dell’influente Commissione Economia della Camera dei Rappresentanti - rischia la bancarotta (sembra abbia esaurito i propri risparmi in una causa, fallita, contro il giornale che aveva rivelato lo scandalo) e soprattutto una condanna penale per truffa e appropriazione indebita, due clausole di decadenza automatica dal ruolo di deputato previste dallo Statuto della Camera, lasciando così il Governo laburista ancor più alla mercé degli alleati indipendenti in Parlamento. La premier Gillard, in guerra con la Destra e la Sinistra estrema, per una controversa tassa ai grandi inquinatori e per le contestate missioni militari australiane all’estero, potrebbe alla fine cadere, meno nobilmente, per i vizi di un singolo deputato disonesto.

lunedì 22 agosto 2011

La Politica di Sodoma

Anwar Ibrahim entra in tribunale con la moglie
MALAYSIA - Gli scandali sessuali, veri o presunti, specialmente se con qualche risvolto penale, vengono ampiamente utilizzati in politica per colpire l’immagine degli avversari, anche all’interno dello stesso partito. In Asia, dove l’etica pubblica e privata di governanti e parlamentari è - agli occhi degli elettori - spesso più rilevante delle loro decisioni politiche (o dei loro crimini finanziari e violazioni dei diritti umani), un’accusa di omosessualità può distruggere per sempre un uomo politico, anche se si tratta di un leader abile, esperto e di grande popolarità. E questo è tanto più vero se lo scandalo viene sollevato in un Paese conservatore e a maggioranza islamica come la Malaysia, dove l’omosessualità è ancora un tabù infamante. Ne sa qualcosa Anwar Ibrahim, 64 anni, fino a pochi anni fa Vice Primo Ministro e candidato in pectore alla successione del leader storico della federazione, Mahatir Mohammed, ma caduto in disgrazia nel 1998 per contrasti con il suo mentore e altri colleghi sulla strategia da seguire per fronteggiare la devastante crisi che nel 1997 aveva colpito le economie asiatiche. Cacciato dal partito UMNO e dalla coalizione di maggioranza, il Barisan Nasional, Anwar era finito subito al centro di un’inchiesta per corruzione, alla quale si era immediatamente aggiunta un’imputazione di “sodomia” (omosessualità). Arrestato, picchiato in carcere, esposto al pubblico ludibrio per mesi con rivelazioni ampiamente rilanciate dalla stampa governativa, l’ex astro nascente della politica malese (nominato “Asiatico dell’Anno” dal settimanale Newsweek nel 1998) nel 2000 era stato condannato a 15 anni di prigione, sulla base di un’investigazione che molti osservatori indipendenti non avevano esitato a definire “una evidente e ben orchestrata macchinazione politica”. Le proteste di moglie, figli, amici e sostenitori e alcune inchieste giornalistiche indipendenti portarono nel 2004 a una revisione del processo e all’annullamento della sentenza da parte della Corte Suprema malese per pesanti vizi di forma e di sostanza nell’inchiesta. Da allora Anwar ha tentato di rientrare in politica, diventando in breve tempo il leader dell’Opposizione al regime di Kuala Lumpur, vincendo un seggio in Parlamento e rilanciando le speranze degli avversari del regime, dei riformatori e delle minoranze etniche. Immediata la reazione della maggioranza, arrivata fino alla sospensione di Anwar dal Parlamento per “minacce all’unità nazionale” e altrettanto rapida una nuova campagna su presunti reati a sfondo sessuale. Ancora un’accusa di omosessualità, questa volta sulla base di una denuncia di stupro da parte di un giovane funzionario politico, dalla credibilità apparsa subito alquanto dubbia, e la diffusione ai giornali e su YouTube di un video che ritraeva un uomo vagamente rassomigliante a Anwar, intento a commettere “atti contro-natura”. Immediata una nuova inchiesta della Polizia e una formale accusa di violenza sessuale culminata, pochi giorni fa, nell’apertura di un nuovo processo di fronte al Tribunale di Kuala Lumpur. Presentandosi davanti alla Corte, accompagnato dalla famiglia, Anwar - da buon politico - ha tenuto un discorso di un’ora proclamandosi innocente e dichiarando: “Questo processo non è altro che una cospirazione del Primo Ministro Najib Razak [nuovo uomo forte del Paese], per liquidarmi mandandomi dietro le sbarre. Lui e gli altri possono fare scempio della mia reputazione, minacciarmi con la prigione, ma non potranno ridurmi all’obbedienza. La verità prevarrà.”

Il Principe e il suo harem

Una delle statue del principe Jefri (foto: Daily News)
BRUNEI - Che gli uomini ricchi e di potere tendano ad avere vite private (e pubbliche) alquanto disinibite non è esattamente una novità dei tempi moderni, né - con buona pace dei cittadini italiani e del loro Premier - un’esclusiva occidentale. L’Asia offre svariati esempi di sovrani, presidenti, dittatori, generali e politici noti anche e soprattutto per la propria condotta “licenziosa”, a volte violenta e maniacale, e comunque sempre oltre i limiti e le fantasie concessi ai loro malcapitati sudditi ed elettori. Una recente causa di fronte alla Giustizia inglese e una lunga e dettagliata inchiesta del mensile Vanity Fair, hanno portato alla conoscenza del pubblico il caso del nobile principe asiatico Jefri Bolkiah, fratello minore del sultano del Brunei (Brunei Darussalam), piccola e ricchissima monarchia petrolifera incuneata in territorio malese, nel nord del Borneo, e affacciata sul vasto Mar Cinese Meridionale. Quarto Paese al mondo per PNL pro capite, grazie ai proventi dell’estrazione del petrolio, il Brunei è un sultanato costituzionale che applica un’originale commistione di Common Law britannica e Sharia islamica. La famiglia al potere, coperta di petrodollari dalle grandi compagnie multinazionali, è nota per lo stille di vita dispendioso di molti suoi componenti, ma fino a qualche mese fa pochi, dentro e fuori i confini del piccolo Stato asiatico e degli ambienti internazionali più esclusivi, immaginavano il lato più osé della vita privata del fatello “playboy” del Sultano. A leggere la lunga analisi delle prodezze erotiche fatta da Vanity Fair - e ripresa dai giornali specializzati in gossip “reali” - in quanto a predilezione per i piaceri della carne, il “giovane” (ha ormai più di 56 anni) principe Jefri sembra davvero un caso unico, nel pur immaginifico circolo ristretto del jet set internazionale. Poligamo, come gli è concesso da un’interpretazione del Corano ormai contestata in molti Paesi musulmani, Jefri ha avuto (finora) 17 figli da 7 donne diverse. Il suo harem informale, però, è molto più vasto e ha raccolto in passato decine e decine di giovani donne di diverse nazionalità tra le quali anche l’ex Miss America Shannon Marketic, invitate a frequentare il suo talamo a suon di gioielli, denaro contante e altri sontuosi regali. Concubine non sempre interamente consenzienti, a leggere il libro scritto da una di loro, Jillian Lauren, che ha accusato Jefri di avere trattato lei e altre 40 ragazze come “schiave sessuali”, raccontando in dettaglio particolari scabrosi dei festini celebrati nei palazzi del principe e dello stesso Sultano (il più vasto dei quali ha 1.788 stanze), con il quale il principe avrebbe condiviso alcune delle favorite. Tra i vari esempi della singolare predilezione di Jefri per la figura femminile, anche il gigantesco yacht, ammiraglia della flotta privata del principe, battezzato esplicitamente “Tette” (con i due motoscafi di appoggio coerentemente chiamati “Capezzolo 1” e “Capezzolo 2”). Ma i pezzi migliori del principe-collezionista sono stati svelati nel corso di una causa per truffa (persa da Jefri) tenuta alcuni mesi fa in Inghilterra: quattro statue del valore di 1 milione di dollari, che ritraggono il nobile asiatico, a grandezza naturale, mentre è impegnato in giochi erotici con una delle sue concubine straniere. Le statue, alcune foto delle quali sono state pubblicate dai tabloid inglesi, sono piuttosto esplicite. Ma sembra che non abbiano incontrato il gusto di Jefri, che avrebbe protestato con lo scultore. Non per averlo ritratto completamente nudo, ma per avere dimenticato di aggiungere al suo viso il paio di baffi che cura ed esibisce con grande orgoglio.